Come inizia

Prologo
Luglio, 1505

Le pareti della cella stillavano un’umidità antica che precipitava in gocce fredde sul pavimento. Acqua sporca, gravida di ogni sozzura accumulata ai piani superiori, che laggiù si raccoglieva in pozzanghere maleodoranti, incapace di cadere più in basso.
Il prigioniero non sembrava preoccuparsene, seduto con la schiena poggiata alla parete, le gambe raccolte al petto. Una postura dettata non tanto dal timore, quanto dal desiderio di non mancare di rispetto con la propria nudità all’ospite immobile davanti a lui, nella penombra. In quella posizione la luce fumosa della torcia rivelava tutta la devastazione operata dalle mani dei carcerieri sulle sue membra, ma ciò che il pudore suggeriva di celare veniva nascosto. Una cortesia che in altre circostanze il visitatore si sarebbe sforzato di apprezzare.
«Che cosa vi hanno fatto, povero Michele?» Quest’ultimo attese che la guardia si fosse allontanata per rivolgerglisi. Il silenzio gravava nella cella, pesante quanto le infinite tonnellate di pietra sopra le loro teste.
Si udì un suono tintinnante, catene che sfregavano sulla roccia, mentre l’uomo raggomitolato sollevava una mano a liberare il volto dalla massa arruffata dei capelli luridi.
«Nulla di diverso da ciò che io feci a molti, Niccolò. Il vostro caro Dante avrebbe di che dissertare a lungo.»
In una situazione diversa Niccolò Machiavelli, segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina, avrebbe risposto con un sorriso arguto a quel riferimento letterario. Ma nemmeno la sua abituale ironia riusciva a venirgli in soccorso mentre contemplava, con malcelata pietà, ciò che restava del suo amico di un tempo. La sua stessa voce sembrava infranta, come lo era il suo corpo, uno strumento imperfetto, stonato, una campana crepata. Tuttavia Niccolò riconosceva in essa ancora i toni e gli accenti delle brillanti disquisizioni che un tempo li aveva visti confrontarsi sulle logge vaticane velate dalla porpora del tramonto.