«Cesare possedeva un carisma eccezionale, già allora, ma questo voi lo sapete bene. Incontrandolo si potevano provare solo sentimenti estremi: amarlo subito, e decidere di dedicargli tutta la vita, oppure odiarlo, e fare della sua distruzione il fine ultimo della propria esistenza. Eravamo una strana accoppiata, a detta di tutti: io, che dopo la morte di mio padre ero diventato ombroso e taciturno, e che bevevo avido dalle mammelle della sapienza con tutto l’entusiasmo e l’ingordigia di un ragazzino. Lui, il figlio del cardinale catalano, il più ricco tra noi, il meglio vestito… perfino il nipote di Lorenzo il Magnifico temeva di sfigurare invitandolo alla sua tavola, perché i suoi piatti erano più belli e pregiati, le sue vesti più sontuose, il suo cavallo più veloce. Ma Cesare non amava gli sprechi di denaro. Stimava la sua ricchezza nella misura in cui essa poteva dargli potere sugli altri. Non ne faceva certo sfoggio. Sapeva essere il più frugale tra noi, duro con se stesso quanto lo era con gli altri. Infaticabile in tutto: nello studio, nella discussione, nelle armi, nel sesso. Senza dubbio sapevamo divertirci un mondo insieme. E forse io lo avevo compreso fin da allora…»
Scosse il capo, la voce che andava scemando, come se all’improvviso nel suo petto non vi fosse più respiro a sufficienza per dare suono ai pensieri.
«Che cosa avevate compreso, Michele?» lo incalzò Niccolò, avido di sapere altro, timoroso perfino di respirare troppo forte e di spazzare via così, in un soffio, quella cattedrale di ricordi che si andava ergendo nel buio.
La voce di Corella giunse da un luogo remoto, come se le tenebre l’avessero inghiottito.
«Che per seguire lui avrei rinunciato a ogni cosa.»